sabato 24 maggio 2008

Perché difendo le mie periferie

L' intervento
Perché difendo le mie periferie
Visto che sto scrivendo da una ventina d' anni contro le inutili bizzarrie che perseguitano l' architettura di successo mediatico di questi ultimi tempi, non posso essere che in gran parte d' accordo con le critiche di Franco La Cecla contro i vizi degli architetti che egli nomina (sia pure con qualche distinzione), e contro la post-società di cui quegli architetti rappresentano il ritratto e che ne riproduce continuamente le immagini. Si tratta dell' eredità dell' ideologia postmodernista con l' uso oggi dei linguaggi delle avanguardie invece di quelli di ieri della storia, ambedue rovesciati di senso; ed a questa perdita di senso contribuisce anche l' architetto che fa della tecnologia il proprio scopo e che, come giustamente scrive Pierluigi Panza, marginalizza l' importanza ideale e politica dell' architettura e del disegno urbano nella gerarchia dei valori della coscienza collettiva della nostra società e dei suoi rappresentanti istituzionali. Sono meno d' accordo con l' accusa di «solipsismo», visto che è proprio la confusione (cioè il contrario della relazione tra discipline) nei confronti proprio degli obiettivi della moda, della tecnoscienza, delle arti visive e televisive, che produce imitazioni e processi di trasposizione deduttiva abusivi. Al contrario, è proprio la perdita di coscienza di ciò che solo l' architettura può dire che è colpevole dell' attuale crisi di dialogo critico con ciò che il presente propone. Quanto al riecheggiamento dello stupidissimo libro di Tom Wolfe, le critiche erano allora dirette contro il Movimento Moderno degli anni ' 10/' 30, che poco hanno a che vedere con le riflessioni di La Cecla. Ciò con cui non posso essere d' accordo è, da un lato, il titolo del libro (non sono affatto «contro l' architettura», ma contro i detrattori della sua pratica artistica e dei suoi ideali proprio attraverso allo spreco della nozione di creatività, del nuovo ridotto a novità, del monumento ridotto ad immagine di marca), e dall' altro con l' accenno alla «presa di distanza» che, almeno per quanto mi concerne, non è mai avvenuta. Specie proprio per quanto riguarda il quartiere ZEN 2, il cui progetto ho seguitato a difendere; anche a proposito proprio di quella nozione di «vicinato» a cui Panza fa riferimento.
Gregotti Vittorio
Pagina 57(23 maggio 2008) - Corriere della Sera

Architetti: la moda non fa paura

Polemiche Fa discutere la tesi dell' antropologo Franco La Cecla sui danni causati dallo style-system alle città
Architetti: la moda non fa paura
Botta: «È un male passeggero». Koolhaas «Finita l' età delle teorie»
La moda ha ucciso l' architettura o l' ha solo ferita? Per alcuni progettisti la tesi contenuta nel libro di Franco La Cecla Contro l' architettura (presentata ieri sul Corriere) non coglie nel segno: i sistemi della moda e della comunicazione, al massimo, hanno ferito l' architettura... che con un buon cordiale si riprenderà. Ma critiche e approvazioni all' invettiva dell' antropologo milanese sono di segno diverso, talvolta opposto. E questo va a suo favore. Rem Koolhaas, per La Cecla il «trend setter» di Prada, autore del breviario nichilista dell' architettura contemporanea, Junkspace (Quodlibet), non può che ribadire una tesi già espressa al Congress centre di Londra nell' intervento Dilemmas in the evolution of the city: «C' è stato un periodo in cui sapevamo esattamente quello che dovevamo fare: molti hanno scritto manifesti, dichiarando quello che stavamo facendo e alcuni hanno realizzato quei manifesti. Negli ultimi 15 anni, a causa dei nostri errori, la cultura è cambiata, e quella fede nel sapere ciò che dovevamo fare è crollata completamente. Oggi non scriviamo più manifesti, ma al massimo ritratti di città particolari, non con la speranza di sviluppare una teoria su cosa fare, ma solo con quella di capire come sono attualmente le città. La fiducia è completamente assente e ci vorrà tempo prima che ritorni». Su questa linea, ma in una forma tanto radicale da rigettare le tesi di La Cecla, è il progettista del nuovo Museo del ' 900 e del Just Cavalli Café di Milano, Italo Rota: «La moda non ha ucciso nessuno: un paio di jeans di Cavalli che migliorano la forma di un 60enne lo aiutano a vivere meglio, così come una casa a Dubai, che costa meno che in Brianza. La Cecla parla dello 0,1% del mondo degli architetti e ignora quindi il 99,9% dei problemi. Ad esempio, il fatto che i costruttori si stiano già spartendo le aree per l' Expo di Milano». Più comprensione per il j' accuse si trova abbandonando gli style-architect (ci sono anche Tadao Ando per Armani, David Chipperfield per Dolce & Gabbana...). Mario Botta, ad esempio, ritiene veritiere le critiche di La Cecla, ma toccano, afferma, «solo una degenerazione impietosa del nostro tempo. È vero che la moda ha spopolato in settori non solo di costume attraverso la pubblicità e altre forme edonistiche del vivere. Ora sembra contare solo l' immagine, ma non è così: l' architettura resta costruzione dello spazio in rapporto con un contesto, un' attività che lavora sul territorio della memoria. L' architettura è il risultato delle forze fisiche relative al processo di creazione. Se sono in atto solo quelle edonistiche è chiaro che la forma finale sia quella del decostruzionismo contemporaneo. Ma anche la moda passerà di moda». Un' analisi non dissimile è quella di Vittorio Gregotti, che di La Cecla, però, rifiuta la critica di «non assunzione di responsabilità» da parte degli architetti che hanno costruito alloggi popolari in periferia. Un tema, quest' ultimo, sul quale invece benedice le critiche di La Cecla il direttore del Domenicale, Angelo Crespi, che con il critico Nikos Salingaros ha bacchettato il decostruzionismo delle «archistar»: «Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri. Pensiamo alle periferie ideate dai modernisti: sono luoghi orrendi, degradati, in cui gli abitanti hanno come disvalore di riferimento il brutto. Pensiamo invece a quanto i borghi medievali, costruiti senza l' ausilio di urbanisti e architetti, siano integrati nel paesaggio e funzionali alla vita umana. L' architettura e l' arte hanno rinunciato a pensare in termini di bellezza». Ed è proprio Salingaros che, pur volendo riformulare l' idea di progetto su base «biologica» e «scientifica», accenna a vecchie nostalgie attraverso la citazione di alcuni amici, come Leon Krier, l' architetto classicista prediletto dal principe Carlo, e Michael Mehaffy, già «direttore educazione» della Fondazione del principe Carlo. «Leon - afferma Salingaros - non vuole mescolarsi negli affari italiani, ma dice che è totalmente disgustato della direzione che ha assunto l' architettura contemporanea italiana». Quanto a Mehaffy, afferma: «Questi progetti (il riferimento è al grattacielo di Libeskind per Milano) non aggiungono realmente qualcosa alla vita di una città, forse sono solo un' icona aziendale che potrebbe essere interessante guardare per un paio d' anni. Il prezzo urbano pagato, però, è molto elevato».
Panza Pierluigi
Pagina 57(23 maggio 2008) - Corriere della Sera

La moda ha ucciso l'architettura

J' accuse L' antropologo Franco La Cecla: «Con Koolhaas, Gehry e Fuksas l' urbanistica è in mutande»
La moda ha ucciso l' architettura
Gli stilisti usano le «archistar» per stupire. Non per migliorare le città
Il sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi architetti e ucciso l' urbanistica. È la sostanza della tesi che l' antropologo dell' Università San Raffaele di Milano, Franco La Cecla, dà della situazione dell' architettura in un saggio (Contro l' architettura, Bollati Boringhieri, pp.118, 12), talvolta disorganico, ma che ha la forza tipica della riflessione di uno studioso «fuori casta» e che riecheggia il celebre Maledetti architetti di Tom Wolf (1982). E' vero, la moda ha fagocitato il mondo dell' architettura, ha per lo più «ridotto» gli architetti ad artisti creatori di oggetti «alla moda», deresponsabilizzandoli nei confronti del funzionamento della città e della società. Li ha trasformati in «creatori di trend» (come «stilisti») al «servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace - afferma La Cecla - non ci sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono state le marche di moda a trasformare l' architettura in moda». Quello che gli artisti hanno trovato nel sistema delle gallerie, dei curatori e nel mercato dell' arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e negli stilisti. Anzi, afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente «preso il posto della maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande». E una volta che sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli architetti. Cancellata la critica architettonica e del restauro (anche se siamo il Paese con il 50% dei beni culturali) i media hanno fatto scivolare l' architettura, l' arte e il design dal «giornalismo culturale» al «giornalismo di moda», direi dell' «intimo», con responsabilità gravi per il nostro territorio. Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune «archistar» che finiscono con l' occuparsi «di decoro, di cose carine», come mutande disegnate da calciatori o starlet. Morti Tafuri e Zevi, alla critica e alla «scienza» urbana (non servirebbe una pianificazione collegata ai problemi dell' immigrazione? La rivolta dei cinesi a Milano e la nascita di campi rom non sarà dovuta anche a un deficit urbanistico?) si è sostituita la costruzione del consenso. Così c' è chi, come Rem Koolhaas, che diventa «un trend setter, qualcuno che apre nuove direzioni al marketing Prada». E c' è qualcun altro, come Frank O. Gehry, che si affida al «brand», al salvagente della genialità: peccato che sulla sua testa piovano accuse come quelle contenute nel libro di John Silber della Boston University dal titolo esplicito: Architettura dell' assurdo. Come il genio ha sfigurato la pratica di un' arte. Ma La Cecla accusa anche la «continua presa di distanza» degli architetti dai loro progetti una volta che questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che diventano invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in generale, a tutta l' architettura di quegli «apostoli che dagli anni 50 alla fine degli anni 80 hanno promosso l' idea che l' abitare andasse risolto con grandi costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città», generando mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel Foucault. Giustamente La Cecla individua nella spostamento di termini da «casa» ad «alloggio» l' orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha spianato la strada all' affermarsi del sistema della moda e, di conseguenza, al decostruttivismo internazionale. L' idea tayloristica di stoccare gli individui come ingranaggi di un sistema all' interno di alloggi razionali ha distrutto l' orizzonte storico-simbolico dell' architettura, ovvero quello delle relazioni primarie, ad esempio quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli architetti dovranno pur portare una responsabilità! Naturalmente, di fronte alle accuse di La Cecla, la comunità che si autolegittima «addetta ai lavori» già stringe le fila, cercando di depotenziare l' analisi a «logica di gossip» (Fulvio Irace, «Il Sole 24 ore») come espressione di una generica «ostilità al progetto». Vero è che La Cecla riduce la complessità del Movimento Moderno e si lascia andare a una adulazione per Renzo Piano del tutto fuori contesto, ma mette a nudo le responsabilità del mondo dell' architettura. Gli architetti sono rimasti in mutande a causa della loro ostinata volontà di rifondare solo dall' interno la loro disciplina (creando università fondate per scuole stilistiche) e non dal confronto con gli altri nuovi campi del sapere, strutturando per decenni un pensiero «unico» di riferimento, costruendo mostruose periferie consegnandosi, poi, talvolta, alla speculazione edilizia, tanto che le questioni in cui oggi si trovano impelagati sono «per lo più irrilevanti». Detto questo, non tutti i rilievi sono acriticamente accettabili: intanto bisogna essere consci che siamo di fronte a una smaterializzazione della civiltà con una conseguente ineludibile perdita di centralità dell' architettura. L' essere «al servizio dei potenti di turno» (gli stilisti) non è una novità: i grandi architetti sono sempre stati al servizio dei potenti di turno. Riuscire a ispirare un «trend» sarebbe un bene per gli architetti, se ciò non fosse fine a se stesso. Infine, il decostruttivismo internazionale, con i suoi limiti, è una testimonianza simbolica della società liquida, dello «stupefacente» e della trasformazione genetica e ha fornito anche sollecitazioni e sviluppo al settore e alla società. Ma è anche un monito sul solipsismo «stilistico» in cui si rifugia l' architettura di fronte alle difficoltà di confrontarsi con problematiche come il protocollo di Kyoto, l' affermarsi o meno di città multiculturali, le dinamiche della comunicazione e l' interrogarsi su cosa voglia dire declinare il globale nel locale, magari riesplorando anche il lascito dell' architettura organica.
Panza Pierluigi
Pagina 49(22 maggio 2008) - Corriere della Sera