venerdì 16 novembre 2007

Renzo Piano: «Il mio palazzo delle notizie»

L'architetto italiano e la nuova sede del New York Times: «E' lo specchio di New York»



NEW YORK — Sulle orme del suo celebre concittadino genovese, a settant'anni, Renzo Piano ha scoperto l'America. Un po' per amore e un po' per forza, visto che non è esattamente colpa sua se ogni progetto italiano firmato dal-l'architetto del Beaubourg diventa oggetto di risibili polemiche, buon ultimo il grattacielo dell'Imi- San Paolo a Torino. Tant'è. Sono sei le opere di Piano, in dirittura d'arrivo o in fase di progettazione negli Stati Uniti. Ma l'emblema dell'avventura americana di Piano è la nuova sede del New York Times, forse il progetto più significativo portato a termine nella Grande Mela dopo l'11 settembre, sicuramente il primo che ha osato sfidare l'«architettura della sicurezza », figlia delle paure e delle angosce innescate dalla sfida del terrorismo islamico, prevalsa nelle scelte per la ricostruzione di Ground Zero. Lunedì sera, tutta la New York che conta sarà all'inaugurazione del nuovo edificio, alto più di 300 metri e interamente coperto da una guaina di profili in ceramica che filtrano l'impatto solare, permettendo una distribuzione omogenea della luce.


LA «PIAZZA» - Incontriamo Renzo Piano nella caffetteria al 30mo piano del grattacielo, «la piazza » come la chiama lui, uno spazio luminoso su due livelli scavato esattamente a metà della costruzione dove «ci si incontra, si discute, si viene per godersi la vista della città». Ricorda quella cena del 14 settembre 2001, giorno del suo compleanno, con l'editore Arthur Sulzberg e gli altri manager del Times. L'attentato alle due torri lo aveva colto in città, dov'era venuto con la moglie e il figlio di 2 anni: «Parlammo di cos'era successo e di come ciò avrebbe influenzato il progetto. E ci trovammo d'accordo nel perseguire la nozione di trasparenza, che è poi la chiave poetica ed espressiva di questo edificio. Finirono per accettare la mia teoria: in termini di sicurezza è più affidabile la trasparenza dell'opacità. L'edificio è nato insomma in un momento di passaggio cruciale, quando uno si sarebbe aspettato un bunker». Trasparenza e leggerezza rendono bene l'effetto ottico del grattacielo: dalla strada si coglie tutto quello che succede dentro e viceversa. Anche lo schermo in ceramica grigia è in realtà trasparente: «In certo senso fa respirare l'edificio. Bisogna ricordarsi che New York ha questo di straordinario, che è una città fotosensibile, cambia colore a ogni momento della giornata. E i profili permettono una caccia costante a come creare un'emozione, si avvolgono della luce ». Il risultato è che sei in mezzo alla città, ma sei anche in uno spazio definito: «L'edificio e la città — spiega Piano — si leggono a vicenda e dialogano. Mi è sembrata una buona metafora del concetto di redazione e di giornale, una struttura che si alimenta della città».



DAL BASSO - L'altra sorpresa è in basso. La costruzione levita sul piano strada, laddove, come dice l'architetto, «la maggior parte dei grattacieli a New York scende fino a terra, prendendo possesso in modo piuttosto aggressivo del territorio ». Qui invece al piano terra ci sono spazi pubblici, un atrio, un giardino con sei betulle alte 16 metri, il Times Center e le due strade, la 40ma e 41ma, risultano collegate». Come risposta al terrorismo, fatta di spazi aperti, colori vivaci dal giallo del marmorino al rosso di molte pareti, sembra piuttosto sfrontata: «La verità è che non c'è una risposta tecnica al terrorismo islamico, l'unica sarebbe la caverna. I terroristi attaccano e negano la città, che è l'espressione massima della civiltà. Non si può illudere la gente. La scelta fatta qui al New York Times è di celebrare non la potenza o la forza, ma la trasparenza e la leggibilità». Piano ricorda che Calvino ne «Le città invisibili» diceva che ogni città ha un angolo che non è inferno, ed è quello che bisogna scoprire, cui bisogna dar forza anche nei momenti più duri e nella tragedia: «Una città sicura è una città senza angoli bui». Distribuita sui primi tre piani, collegati da scale e aperti uno sull'altro intorno a un patio centrale, che si allarga come il tronco di una piramide rovesciata, la newsroom è il cuore del palazzo, la «bakery », la forneria dove il primo giornale del mondo viene pensato e realizzato. «Voi siete della ditta Piano?», ci chiede un redattore in discreto italiano. «Sì, sono Renzo Piano. E mi dica come si trova?». La risposta è incerta: «È bellissima, ma forse è un po' troppo grande, per andare a trovare i miei colleghi dell'Art Section devo fare diverse centinaia di metri». L'architetto la prende con diplomazia. Ma l'architettura, gli chiedo, può rendere felici le persone? «Certo, ma poiché è anche un'arte imposta, gli architetti hanno responsabilità enormie possono essere pericolosi. Se un libro è scritto male puoi non leggerlo, ma se una città è brutta ci devi vivere lo stesso».
Paolo Valentino - 16 novembre 2007