giovedì 5 giugno 2008

Fuksas: "Diamo una casa a tutti"


Per il padre della nuova Fiera di Milano è il momento di tornare all’edilizia pubblica
FIORELLA MINERVINO
ROMA.
Al centro di Roma lo studio di Massimiliano Fuksas è un intrico di stanze, stanzette, progetti, manifesti, giovani al computer; là compare il disegno dell’aeroporto di Shenzen in Cina da approntare in 3 anni, e seguire sino al 2030, qua il progetto per il grattacielo della Regione Piemonte a Torino, o quello per un teatro per 8 mila persone ad Amiens. Costruttore di immense nuvole che paiono volare, come la Fiera di Milano, Fuksas è dotato di innegabile vis polemica, nonchè di una cultura vastissima. Sarà fra i protagonisti del prossimo congresso mondiale degli architetti a Torino.Sino a poco fa eravate star osannate, ora siete spesso al centro di polemiche infuocate, quasi pagaste una fama eccessiva. Che cosa è successo? «Ritengo si tratti d’un fenomeno italiano, non internazionale: nel mondo l’architettura è ancora importante. Altrove si fanno di continuo concorsi, nel nostro Paese sono rarissimi, la penuria di concorsi corrisponde alle scarse committenze pubbliche e a clienti in estinzione. Si sono costruiti milioni di metri quadrati in paesi devastati nel Veneto, in Lombardia, nel Sud; nessuno si lancia con odio contro quegli scempi. Il progetto firmato con forza ha una visibilità incredibile nella comunità. Non ci si preoccupa di abusivismo, i giudizi acidi cadono sui grandi, come per il cinema, la letteratura o la Tv. La parte peggiore non è soggetta a critica».Che cosa si critica, allora?«Ciò che di meglio esprime la nostra società. Prendiamo ad esempio le torri: non si attaccano quelle costruite a Milano negli Anni ’80, ma le tre previste ora per Citylife o le due di Torino, quella di Renzo Piano e la mia. Si critica il poco di positivo, il resto non si tocca. E’ comprensibile, l’Italia è il Paese con il maggior numero di riviste d’architettura, ne ho contate 185. Possediamo bravissimi artigiani, ottime piccole imprese, insomma parrebbe un Paese di grande creatività che sostenga l’architettura, con intelligenti committenti quali Alessi o Armani e altri che sostengono questo "made in Italy’ con forza e coraggio».Ma quali sono allora gli elementi negativi?«L’odio contro gli architetti consacrati: esistono 130 mila studenti in università ormai mediocri e 130 mila architetti sono un fatto impensabile: dunque ci si scaglia ciecamente contro i pochi che costruiscono. C’è un aspetto compassionevole. A nessun giovane, prima dei 50 anni, è garantita una via sicura o notorietà, anche dai committenti odierni: finanza, fondi pensioni e altro. Lo Stato non ha un progetto. Tutti noi il grosso lo abbiamo fatto all’estero, è quindi giusto che gli architetti stranieri lavorino da noi».Avrete anche voi colpe di tale stato di cose...«Errori ne abbiamo fatti pure noi. Già nella Biennale veneziana del 2000, che diressi e che avevo titolato "Less Aestetics, more Ethics", indicavo la necessità di un ritorno al valore etico e a dare ragione di quello che si fa. Oggi bisogna ripensare e costruire per un gran numero di abitanti a basso costo, perciò lo Stato deve intervenire. In fondo dall’Ina Case di Fanfani non si è fatto più nulla. In Italia abbiamo 4 milioni di stranieri da far abitare e coabitare sopportandosi. Paghiamo lo scotto delle ideologie del ’68, quartieri come le Vele, lo Zen, Scampia, hanno offerto risultati ideologici lontani dalla crescita delle famiglie. Negli Anni ’70 ideologia, sociologia, urbanistica hanno creato modelli impropri, lontani dalle necessità e imposto la logica dei vincoli che hanno bloccato molto, non però l’abusivismo. Esistono 9 milioni di case abusive, a partire dalla veranda ai grandi edifici. Ma anche oggi nessuno ci chiede di progettare quartieri di case che abbiano, oltre la quantità, anche la qualità di vita.Propone soluzioni?«Una è di unire la città: la Fiera di Rho-Pero che ho costruito a Milano aveva non solo funzione commerciale, ma emblematica: doveva far affluire e vivere un gran numero di persone. Per ora non è avvenuto. La città in genere possedeva potere, cultura, commercio e un aspetto ludico, uno scenario spettacolare dove osservare mostrare e mostrarsi. Pensiamo nella storia ad Atene, ma soprattutto Roma: aveva stadi, terme, posti per ginnastica, luoghi dove ritrovarsi; oggi è rimasto lo stadio con l’aspetto più violento dell’anfiteatro dove ci si batteva fino alla morte. Dobbiamo ricreare un rapporto di fratellanza fra la gente, non ideare solo opere irripetibili. L’architetto deve cercare di comunicare a un gran numero di persone le proprie emozioni. Ma vive una forma di isolamento: spesso anch’io mi sento solo, incapace di trasmettere agli altri ciò che vorrei. Esiste la solitudine dell’architetto “di fronte al calcio di rigore”, specie se è noto».Che cosa è cambiato dal secolo scorso in cui si pensavano e costruivano le grandi periferie?«Intanto nel mondo ci vorrebbero centinaia di migliaia di buoni architetti. In passato Khan, Le Corbusier, Niemeyer, Lucio Costa e altri hanno progettato e prodotto alla grande, ora è difficile, siamo intrappolati nella riproduzione di quello che è stato. Dal ’68 è finita la speranza del cambiamento, si vive guardando indietro, chi con Zapatero, chi con l’Olanda xenofoba. In realtà la nostra è la visione di un eterno presente, non a caso si continua a parlare di centro storico: a Roma ci vivono circa 127 mila persone contro i 3 milioni e settecento mila che abitano fuori, Venezia ha 35 mila abitanti, Mestre 250 mila, non è certo periferia. In compenso esistono gravissimi problemi di infrastrutture irrisolti che nessuno vuol risolvere. Insomma il vero problema che pochissimi avevano immaginato sono i grandi numeri: se il Paese non ritrova il senso di comunità, la balcanizzazionè è possibile come mostra il film Gomorra»Ritiene importante, visti i problemi, il congresso di Torino?«Molto, sono stato a quello di Istanbul come oratore: con 2 mila persone a ogni conferenza, era uno scambio continuo fra gli architetti dei vari Paesi e quelli turchi. I congressi servono parecchio, come le esposizioni e gli eventi che li accompagnano. Torino è sede giusta, importante, con una bellissima storia e un’architettura che invitano a riflettere su passato e futuro. Gli eventi servono alla gente per discutere, il contatto fisico è importante, anche Internet e telecamere lo sono, ma si devono integrare; non si può passare la vita al telefono, un giorno bisognerà pur incontrare l’altro».
FIORELLA MINERVINO - LA STAMPA 05.06.2008